Verso un cinema di retroguardia?

La crisi dell’Uci si aggrava con la messa in liquidazione, nel 1921, della Banca Italiana di Sconto, partner finanziario determinante del consorzio. Dopo quell’anno si registra una sensibile diminuzione dell’attività produttiva. A colpire non è tanto il calo della produzione (che per altro diventerà drammatico a partire dal 1924), quanto il divario ormai incolmabile tra lo standard qualitativo del film italiano e il livello di maturità espressiva raggiunto dalle altre cinematografie maggiori (dagli Stati Uniti all’Unione Sovietica, dalla Germania alla Francia): i risultati prodotti dal cinema italiano nel corso degli anni Venti sembrano invece incapaci di produrre reali novità, al contrario di quanto avviene in Francia (con la cosiddetta première vague), in Germania (con il cinema espressionista e il kammerspiel), in Unione Sovietica (con le sperimentazioni ideologico-formali del cinema rivoluzionario), e soprattutto negli Stati Uniti (dove si stanno definendo e istituzionalizzando le regole auree della narrazione classica).

Il cinema italiano, in altri termini, scivola gradualmente nella retroguardia, restando pressoché estraneo alle avanzate ricerche narrative e visive che animano gli anni Venti, unanimemente considerati come il periodo di più alta e matura realizzazione formale delle potenzialità espressive del cinema muto.

L’obiettivo della riconquista dei mercati passa attraverso un progetto di “ritorno all’antico”: si tratta di riproporre i vecchi generi dei primi anni Dieci. Le produzioni più impegnative si muovono ancora dentro il perimetro steccato del kolossal storico. I titoli più rilevanti del periodo son La nave, 1921, di Gabriellino D’Annunzio, La mirabile visione, 1921, di Luigi Sapelli, sulla vita di Dante e la sua opera maggiore, Messalina, 1923, di Enrico Guazzoni, l’ambizioso Quo Vadis?, 1924, di Gabriellino D’Annunzio e Georg Jacoby, la quarta versione de Gli ultimi giorni di Pompei, 1926, di Amleto Palermi e Carmine Gallone.