Il dopoguerra e il monopolio UCI

Dopo la guerra non si registra una ripresa (malgrado il numero dei film prodotti nel 1919 salga di circa 35 unità rispetto all’anno precedente): si conferma al contrario quel trend nell’aumento delle importazioni che era già emerso negli anni del conflitto. Agli inizi del 1919 l’industria cinematografica italiana tenta di formulare una risposta unitaria a questi segnali di crisi: il 30 gennaio si costituisce la società anonima Unione Cinematografica Italiana (UCI), nata grazie al finanziamento di due grandi istituti di credito (la Banca Italiana di Sconto e la Banca Commerciale) e al fragile compromesso raggiunto tra i due protagonisti concorrenti della scena produttiva di quegli anni (Giuseppe Barattolo e Gioachino Mecheri). L’UCI punta al controllo monopolistico della produzione e tenta una strategia (sia pure piuttosto timida) di concentrazione “verticale”, finalizzata allo sfruttamento del prodotto-film dal momento della sua ideazione e realizzazione al consumo nelle sale. In breve tempo, la nuova società riesce ad acquisire la proprietà e il controllo di decine di case di produzione e di stabilimenti, creando di fatto un potente trust nazionale. L’operazione si rivela ben presto il prodotto di una speculazione, dettata forse anche dalla necessità delle banche (notevolmente arricchitesi durante la guerra) di trovare occasioni pretestuose di reinvestimento dei profitti, in modo da muovere capitali immobili da sottrarre al fisco. L’aumento della produzione non prevede l’elaborazione di formule nuove: la ricetta è sempre la stessa ovvero drammi mondani, film avventurosi a pallida imitazione degli analoghi prodotti americani, super-produzioni in costume ormai desuete.