Il fenomeno Pittaluga

In conseguenza della crisi numerosi professionisti del cinema italiano sono costretti emigrare in altri paesi, in particolare in Germania. Il fallimento dell’Uci riapre gli spazi del mercato ai piccoli produttori indipendenti. I tentativi più riusciti di mantenere in vita la produzione italiana negli anni Venti sono condotti da produttori che propongono film per un pubblico regionale o per le comunità italiane all’estero: è il caso di alcuni produttori napoletani come Emanuele Rotondo, Vincenzo Pergamo, la famiglia Notari, guidata sin dal 1905 dalla forte e singolare personalità di Elvira, ma soprattutto Gustavo Lombardo, già attivo dagli anni Dieci come uno dei più importanti distributori italiani.

Dopo una serie ininterrotta di svalutazioni, nel 1926 la Banca Commerciale, ormai proprietaria quasi unica dell’Uci, cede la società all’unico imprenditore cinematografico capace in quel momento di elaborare strategie di risposta alla crisi del settore: Stefano Pittaluga. Quest’ultimo nel corso dei primi anni Venti aveva conquistato una posizione di leadrship nella distribuzione e nell’esercizio: dopo avere iniziato l’attività nei primi anni Dieci in Liguria come distributore di zona, aveva saputo rafforzare il perimetro delle sue attività distributive costituendo nel 1914 a Torino la Società Anonima Stefano Pittaluga, un’azienda che tra la fine degli anni Dieci e i primi anni Venti vive una fase di profondo sviluppo, affidando le sue fortune alla gestione di numerose sale (soprattutto di prima visione) e alla distribuzione di  film americani prodotti da quelle case (per esempio la Warner) che non disponevano ancora di filiali italiane.

Anche se l’obiettivo prioritario della sua azione mira di fatto al monopolio dell’esercizio e della distribuzione, Pittaluga promuove iniziative anche nel settore della produzione, profilando un progetto di controllo verticale del mercato per certi versi simile a quello delle grandi majors hollywoodiane, pur ovviamente con dimensioni e soprattutto esiti più modesti.

A differenza dei dirigenti dell’Uci, Pittaluga possiede una visione più trasversale della macchina-cinema e ragiona con la mente del distributore: la sua esperienza gli consente di comprendere meglio la necessità di non solo di formare ma soprattutto di assecondare i gusti del pubblico. La profonda conoscenza di questi gusti fa si che Pittaluga sia pienamente consapevole dell’obsolescenza delle formule narrative e spettacolari del cinema italiano: la sua proposta per tentare il rilancio della produzione nazionale prevede la realizzazione di pochi film ma confezionati con cura. Anche se Pittaluga tenta (non si con quale convinzione) di rilanciare il film storico (con Beatrice Cenci, 1926), il genere portante di questo tentativo di rilancio produttivo (in realtà assai timido, perché la quota dei film prodotti diminuisce di anno in anno passando dai 114 titoli del 1922 ai 20 titoli del 1929) è il film atletico-acrobatico, grazie al contributo di Bartolomeo Pagano, in arte Maciste, protagonista di interessanti tentativi di umanizzazione e di creativa reinvenzione del suo personaggio dall’esistenza ormai più che decennale (la sua prima apparizione è in Cabiria, 1914).