Il cinema muto italiano e i letterati

Una peculiarità del primo cinema italiano è il fitto rapporto con la letteratura e con gli scrittori della sua epoca. Dai primi film del 1905-1906 fino, indicativamente, al 1911-1912, il cinema italiano sfrutta in modo quasi febbrile i soggetti della letteratura e il teatro, da Dante Alighieri (L’inferno , Milano Films, di Adolfo Padovan e Francesco Bertolini, 1911 ) a Carlo Collodi (Pinocchio, Cines, di Giulio Antamoro, 1911). Dopo l’affermazione del lungometraggio, tuttavia, il cinema chiede alla letteratura qualcosa di più: non basta attingere frettolosamente al repertorio letterario, occorre che in questo processo di adattamento sia coinvolto anche lo scrittore professionista.

Senza dubbio, il decollo di un’industria cinematografica nazionale esige dagli intellettuali italiani un più diretto investimento di risorse creative, e offre loro possibilità inedite di profitto, ma non si tratta solo di questo. Il nuovo medium obbliga gli autori teatrali e letterari a ripensare il senso e l’identità del loro mestiere. Lo scrittore, che da sempre si ritiene portatore di una visione del mondo personale ed esclusiva, deve misurarsi ora con una grande macchina narrativa e spettacolare che vede nella scrittura solo una fase tra le tante, per quanto di rilievo, del processo di realizzazione di un film. In altre parole, la scrittura e gli scrittori devono misurarsi con la tecnologia e con le logiche industriali della produzione in serie. L’autore rischia di perdere la sua tradizionale centralità nel controllo e nella firma dell’opera. Di fronte a queste promesse di guadagno e queste sollecitazioni da parte del cinema, i letterati italiani reagiscono con modalità molto diverse, talora un po’ ambigue.

Può accadere che il coinvolgimento di uno scrittore in un film sia in tutto o in parte il frutto di una simulazione a fini commerciali, come nel caso, celebre, di D’Annunzio, che per la produzione di Cabiria (di cui risulta ufficialmente il regista) “vende” semplicemente la sua firma e la sua immagine, limitandosi a riscrivere le didascalie di Pastrone e a inventare il nome di alcuni personaggi. Quasi opposto è invece l’atteggiamento di Giovanni Verga: lo scrittore siciliano, pur avvicinandosi dal 1912 alla pratica dello “scenario”, con la composizione di soggetti e sceneggiature tratti dalle sue opere letterarie manterrà a lungo il desiderio di non vedere pubblicamente riconosciuta la sua partecipazione.

Al di là dei singoli casi, nel corso degli anni Dieci quasi tutti gli scrittori italiani di un certo rilievo cercano di trarre profitto dalla vendita delle loro opere per l’adattamento cinematografico, in alcuni casi (soprattutto dalla seconda metà degli anni Dieci) proponendo soggetti originali per il cinema (Matilde Serao, Annie Vivanti, Roberto Bracco ecc.) o collaborando direttamente alla redazione delle sceneggiature tratte dai loro lavori letterari (Fausto Maria Martini, Alfredo Testoni, Gaetano Campanile-Mancini, Giannino Antona-Traversi ecc.). In altri casi, invece, gli scrittori assumono anche ruoli direttivi: non solo vi sono dei letterati (per lo più scrittori teatrali) che passano alla regia cinematografica (è il caso, ad esempio, di Guglielmo Zorzi o di Luciano Zuccoli), ma vi è anche il caso – eccezionale ma non per questo meno importante - di uno scrittore molto celebre, Lucio d’Ambra, che non solo si limita a sceneggiare e dirigere ma si cimenta anche nella costituzione di case di produzione. Il caso di D’Ambra resta comunque un’eccezione. I letterati italiani che aspirano a collaborare con il cinema sono di solito in subalternità rispetto al processo di produzione: i numerosi esponenti del cosiddetto “proletariato” intellettuale (giornalisti, scrittori di romanzi popolari, drammaturghi falliti ecc.) che alimentano la nuova categoria professionale del soggettista specializzato dimostrano di aver recepito la crisi strutturale dell’ideologia letteraria tradizionale. La scrittura creativa si piega agli standard tecnici in via di codificazione e diventa parte di un processo produttivo industriale che non vede più nello scrittore il suo principale responsabile.